Ancora un’insegnante tra le detenute e un trauma condiviso. Il valore dello scrivere e il reciproco sostenersi nella segregazione di Sollicciano. Un linguaggio che sorprende in tempi di sciatteria linguistica nel libro di Monica Sarsini (che è pure un’artista). Il titolo è “Io e Agnese”, la donna lunatica e vitale con cui ha maggiore feeling
di Laura Ricci
Un libro “sottile”, di quella dimensione che si sceglie volentieri perché ci accompagni, senza soluzione di continuità, lungo un viaggio in treno. E al tempo stesso un libro denso, profondo, in cui ogni parola ha la sua ragione di essere nell’economia del tutto, e la sottigliezza non sta solo nello spessore del dorso del volume, ma nella costruzione della struttura del racconto, nel dipanarsi del pensiero e nella cura della forma narrativa. Sto parlando di “Io e Agnese”, l’ultimo libro di Monica Sarsini, che anche si avvale di un saggio sull’autrice di Ernestina Pellegrini.
Il lavoro va a completare una trilogia narrativa scaturita dai corsi di scrittura tenuti dalla scrittrice nella sezione femminile del carcere di Sollicciano, i cui primi due volumi – “Alice nel paese delle domandine” (2011) e “Alice, la guardia e l’asino bianco” (2013) – sono stati pubblicati da Le Lettere di Firenze. C’è però, rispetto ai precedenti libri, uno spostamento, un diverso e originale esperimento di scrittura che non tira in ballo soltanto l’esperienza carceraria, le storie delle donne che frequentano il laboratorio e la relazione tra loro e tra loro e la docente, ma anche il nocciolo più duro, segreto e oscuro del vissuto più intimo e forse irrisolto della narratrice; che rievoca, intrecciata alle vite estreme delle detenute, una sua precoce e altrettanto estrema tragedia familiare: la perdita nell’infanzia dell’adorato fratellino, colpito involontariamente e mortalmente alla nuca da una cartuccia da leprotti scagliata dal suo più assiduo compagno di giochi. E anche nei confronti di quella narrazione del sé che giustamente Ernestina Pellegrini definisce una «poetica del trauma» si fa avanti una sperimentazione più complessa e nuova, in cui la scrittura monologante legata al proprio vissuto non rimane avvitata alla disperazione del proprio io, ma continuamente si intreccia e si raffronta con il vissuto e le storie di Agnese e le altre – Alessia, Daniela, Katia, Laura, Susanna, Giada, Rosalina, Elisa, Malina – le prigioniere del fuori piuttosto che del sé, creando una poetica del rispecchiamento che rispetto all’io stabilisce un’oggettivazione e una distanza e, rispetto alle altre, un avvicinamento al loro esistere ….continua
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