Su “Il Punto” Carmen Gasparotto scrive di “Io e Agnese”

Io e Agnese

di Carmen Gasparotto

 

Della bellezza di un libro è difficile scrivere, sarebbe come tentare di tradurre la vastità di un cosmo. Negli intrecci delle storie le parole toccano profondità nascoste. Emergono sentimenti per lungo tempo sopiti, presenti ma nascosti a se stessi, vite incrociate al pari di alcuni destini.

Sono solo alcune delle emozioni che suscita la lettura del libro di Monica Sarsini “Io e Agnese” (Vita Activa, Trieste) presentato lo scorso 10 aprile al Caffè degli Specchi. Monica Sarsini, scrittrice e artista visiva nata a Firenze, narra della propria esperienza all’interno della sezione femminile del carcere di Sollicciano dove tiene dei corsi di scrittura. Le storie delle detenute, la storia di Agnese e la storia di chi narra si susseguono e si intersecano. Situazioni di vita (o di non vita) anche quotidiane comuni a tutte le carceri e che hanno a che vedere con l’immobilità del tempo e con la convivenza resa ancora più ristretta dal sovraffollamento. È qui che il corpo si fa gabbia e nello stesso tempo spazio effettivo del contatto con l’altro. Corpi mortificati nel pudore e nell’affettività. Storie di donne con le quali la scrittrice entra in empatia – conoscere loro aiuta a conoscere se stessa – e che raccontano di giornate in isolamento, di gesti di autolesionismo dove il corpo viene tagliato, inciso quasi a voler far uscire dolore e disperazione. Le donne detenute vengono chiamate con il nome del reato commesso “Martina viene definita un tentato omicidio, ma scopre che i reati in carcere sembrano meno gravi di quanto appaiono agli occhi della gente libera, tutte hanno fatto cose sbagliate.”

Due eventi delittuosi segnano la vita della protagonista. Due lutti mai elaborati perché nessuno ha mai chiesto scusa per queste morti, tutti hanno coperto gli eventi con il silenzio. Chi narra vive in prima persona il senso di colpa e l’ascolto delle storie, la condivisione dei sentimenti con le detenute fa ritornare a galla il disagio. Come se, in questo silenzio, tutto l’odio provato da parte della vittima non abbia mai coinciso con un risarcimento anche solo morale dunque con un senso di giustizia. Si dirà “(…) ma il concetto di perdono non si è fatto avanti in me come rimedio (…) Io ho fatto del male soltanto a me stessa, dovrei essere arrestata.” E questo aspetto offre spunti al lettore per riflettere su quanto il fare giustizia non possa, e non debba, risolversi solamente nell’applicazione di una pena.

La scrittura, lo stile personalissimo capace di toccare punti di grande liricità, la prosa sensuale, l’intensità della narrazione sono una componente imprescindibile di questo libro.

Ernestina Pellegrini, nel saggio che fa da postfazione, definisce la scrittura di Monica Sarsini una “poetica del trauma”. Il trauma quale codice di base del linguaggio artistico. Vero è che la vita stessa prima o poi ci traumatizza e, forse, senza trauma si è senza vita. Troppo facile infatti constatare la caduta senza tentare la risalita con tutto quello che comporta. Compreso sentire il proprio dolore e quello dell’altro che ti sta accanto.        

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